Fra cinema, sogno e realtà

L’altra sera per miracolo non avevo niente da fare. Fuori dalla finestra, giravano la scena principe dell’apocalisse, con tanto di fulmini saettanti, acqua a catinelle e cani che lottavano contro la furia degli elementi, completamente ricoperti di fango. Visto che non ero ancora riuscito ad andare al cinema a vedere “Inception”, l’ultima fatica di Cristopher Nolan, ho pensato che poteva essere l’occasione buona per farlo, ammesso di riuscire ad arrivare alla macchina senza essere folgorato dall’ira divina. Dopo aver cercato invano un accompagnatore, ho mandato tutti a cagare e sono andato da solo. I motori del mio desiderio erano fondamentalmente due: il regista, solo per il fatto che è riuscito a fare un film serissimo con un tizio vestito da pipistrello e Di Caprio, che odiavo profondamente ai tempi di Titanic ma che negli ultimi tre anni non ha sbagliato un passo, regalando alla cinematografia contemporanea delle rare perle interpretative.

Il cinema era semi deserto e io mi sono preso un posto strategico al centro della sala, sciroppandomi un quarto d’ora buona di spot anni 80 di aziende locali e qualche trailer. Ambientato in un’epoca non specificata, si racconta di un gruppo di ladri, specializzati nel furto di informazioni. Al contrario di come ci si immagina, queste informazioni non sono chiuse in una cassaforte normale, ma nella profondità dell’inconscio del leggittimo proprietario. Grazie ad un dispositivo che ricorda un po’ il mondo di Brazil un po’ un macchinario burroughsiano, i nostri eroi possono condividere i sogni con le vittime designate, orientando la realtà del sogno al fine di raggiungere i loro obbiettivi (che non vi sto a dire sennò mi rompete la minchia). Tutta la struttura narrativa del film si costruisce intorno alla ricerca di un fondamento ontologico che ci permetta di affermare con sicurezza che la realtà che abitiamo sia l’unica vera, ampliando l’indagine che da Sartre a Morpheus ha fatto uscire di testa diversa gente. La realtà del sogno è una realtà parallela, con le sue leggi e i suoi abitanti, possibile perché ordinata, caotica perché diversa. Il regista ci illustra le regole di questa nuova realtà attraverso gli occhi di una novizia, entrata nel crew per ricoprire il ruolo di “architetto onirico”, al posto del vecchio socio rivelatosi (come al solito) un infame. Anche se l’attrice non brilla (una vera cagna accanto a Di Caprio) l’artificio aiuta non poco a calarsi nell’universo di scatole cinesi in cui siamo invitati a penetrare. Per fortuna Nolan non si è lasciato troppo prendere la mano dagli effetti speciali, anche se la sceneggiatura lo permetteva ampiamente. Quello che invece ha fatto con molta grazia è stato l’inserimento di molta simbologia dell’universo onirico e inconscio, appozzando a piene mani alla cultura psicanalitica; il costante richiamo all’acqua e al mare, nella sua dimensione di liquida inconoscibilità, alla resa quasi perfetta di un luogo familiare e al tempo stesso alieno, genera nell’osservatore quello strano senso di realtà irreale che tutte le notti visita mentre dorme beato. Interessante anche l’oggetto Totem, che rappresenta l’ancora che lega il passeggero alla realtà ultima (o presunta tale). Come insegna l’antropologia, il totem è la rappresentazione di un’essenza, di una prerogativa ontologica che lega l’individuo alla sua realtà, senza tuttavia avere un fondamento immanente, esso si configura comunque come un elemento metafisico, un atto di fede. Intorno al totem gira tutta la struttura semiotica del film, ed è grazie ad esso che il regista riesce a chiuderlo in maniera magistrale. Al contrario di come mi aspettavo, la scena finale, in cui l’eroe si ricongiunge con l’oggetto del suo desiderio, lascia spazio ad un interpretazione squisitamente pragmatica (in senso strettamente jamesiano) della realtà. Mettendo l’accento sulla consapevolezza che è impossibile avere la certezza di abitare “La Realtà”, quello che conta forse è solo essere felici, indipendentemente dalla realtà che abitiamo o che crediamo di abitare. Mentre uscivo dal cinema, tornando alla mia umida realtà di pioggia e fango, mi sembrava di essermi appena svegliato da un sogno, vivendomi doppiamente quel senso di inquietudine che la mia mente proiettava sulle cose che mi circondavano. Un’inquietudine molto sottile e ambigua, che la maggior parte della gente chiama, molto prosaicamente, vita.

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