#ioricordo Genova 2001

Sono passati dieci anni da quei giorni, e io non ricordo tutto, ma alcune cose le ricordo bene. Io avevo da poco occupato una casa, insieme a quelli che diventeranno i compagni di una vita. Eravamo stati a Davos, a Napoli, cavalcando la grande onda di proteste che da Seattle si era sollevata sul mondo. Eravamo giovani e ci sentivamo parte di quell’onda, perché eravamo stufi di subire, eravamo stufi di giocare in panchina. A Napoli era scoppiato un casino, ma noi non eravamo scappati, come nessuno di quelli che erano in piazza con noi. Rimanemmo li, faccia a faccia con i celerini, non avevamo paura ma solo rabbia da donargli. Sembrava più un videogioco, se ti beccavano avevi altre due vite a disposizione e il rischio valeva la candela.

Nei mesi precedenti “il grande assedio di Genova”, tutto il movimento ferveva di preparativi e discussioni, si ragionava di spezzoni, di pratiche e di politica, cercando di capire quale era il nostro posto nel mare di sigle e movimenti, che da ogni dove si preparavano alla battaglia. Purtroppo eravamo troppo giovani per annusare il pericolo, per comprendere il quadro, volevamo tutto e ci sembrava che nessuno ce lo potesse impedire. Le mille assemblee e riunioni, spesso totalmente cieche e quasi completamente autoreferenziali, i discorsi da bar, le storie epiche di un passato che non ci apparteneva ma che sentivamo nostro, appaiono ai miei occhi come una foto antica, quasi surreale, in cui la realtà era plasmata dal desiderio, in cui ogni evento era letto dagli occhi di un innamorato, incapace di distinguere, accecato dall’ardore.

In questo clima di euforia collettiva io e i miei compagni ci preparavamo. Avevamo deciso scherzando che il nostro motto era “obbiettivo minimo: riportare tutti il culo a casa”. Avevamo deciso di andare con lo spezzone dei Cobas, ci eravamo dati delle regole per rimanere uniti, per non disperdersi nel marasma, ci sentivamo pronti e finalmente venne il giorno.

Il treno per Genova la mattina di giovedì era un carro della speranza. Migliaia di persone stipate in ogni centimetro quadrato, si scambiavano sorrisi e morsi di panini, sorsi di birra e sigarette. Le lamiere di quel vecchio scassone rimbombavano come tamburi nel brusio delle parole, spropositate, insolenti, vere. Era una famiglia allargata che si spostava sui binari del proprio destino. Mi sentivo felice e parte di qualcosa di grande. Avevo con me il 3310 e mandavo messaggi ai compagni che erano già là al mediacenter, a passare cavi ed annusare l’aria; Genova era militarizzata, ovunque si alzavano barriere, checkpoint e filo spinato attorno alla zona rossa, gli abitanti erano assediati dallo stato e i giornali e i media mainstream già soffiavano sul fuoco. Noi non ci preoccupavamo, non più di tanto. Genova ci accolse comunque con calore, usciva dai balconi aperti delle case, dalle poche serrande alzate lungo le strade, dai sorrisi di comprensione che ricevevi per strada, dalla gente che muta abitava i marciapiedi della propria routine. Il tempo scorreva lento, quasi contagiato dall’incedere rilassato del corteo dei migranti, la polizia rimaneva al margine del campo visivo e nessuno aveva idea di cosa ci stesse aspettando. Camminavo tranquillo accanto ai miei e la mia mente vagava nelle nebbie di un futuro incerto, fatto di scelte, di azioni e di responsabilità. Passammo la sera ad allestire il campo, montando tende e gonfiando materassini. La notte si sarebbe portata via l’ultima goccia di sereno e il giorno dopo il cielo aveva l’aspetto dell’inferno.

 

Non c’erano nuvole ad aspettarci in quel giorno di sole di una mattina di luglio, ma solo un invisibile cortina di nera tensione. Tutto era fermo, l’aria, irrespirabile, lasciava presagire qualcosa di brutto. Non abbiamo fatto in tempo neanche ad arrivare al concentramento che già era scoppiato il delirio. La mia mente ha conservato un’istantanea, inutile eppure ancora fulgida. La banda: erano neri, vestiti di pelle, pieni di fronzoli e mascherodotati, avevano tamburi giganteschi e rullanti fragorosi; marciavano in un’ilare danza. La musica era da banda, giocosa, sbarazzina, ma lì sembrava un canto infernale, un grido di morte. Appena staccati gli occhi dalla scena, ho cominciato a correre. Ovunque mi giravo vedevo gente nel panico e fumo irrespirabile e inesorabile il lento frullare degli elicotteri. Il suono costante delle sirene, le luci sincopate, rosse, blu, poi ancora fumo, ancora lacrime. Noi facevamo di tutto per non disperderci, per elaborare strategie, individuare vie di fuga. Era una trappola, adesso lo sapevamo, lo avevano capito tutti. Abbiamo passato la mattinata a correre, a scappare. Mentre ci muovevamo senza meta per quella città aliena, inospitale, facevamo del nostro meglio per non farci prendere dal panico, raccoglievamo gente dai marciapiedi, portavamo fuori dal fumo dei cs persone in crisi respiratoria, tranquillizzavamo i ragazzini, come dei boyscout dell’olocausto, facevamo di tutto per non sentirci inutili, per non sentirci prede. I miei compagni con me, sempre uniti, non permettevamo a nessuno di allontanarsi, e questo piccolo accorgimento ci ha aiutato a non farci portare via. I più pericolosi che io ricordi erano i finanzieri: tutina kaki e ghigno da bastardi. Si accanivano su chiunque, anche immobile con le mani alzate al ciglio della strada, anche sui vecchi, sui tredicenni coi baffi, nessuna distinzione, ce n’era per tutti. Dopo ore di delirio arriva la notizia. Hanno ammazzato un ragazzo in Piazza Alimonda, gli hanno sparato in testa. Da allora tutto è cambiato. Io sono cambiato. Io sono una persona di indole mite, una bilancia, sempre a mediare, sempre a soppesare tutte le circostanze spesso rimanendo paralizzato dal dubbio di sbagliare, sempre a cercare del vero e del giusto in ogni cosa. Fino ad allora i carabinieri erano cattivi ma perché non avevano coscienza di quello che erano, li odiavo come si odiano i fantasmini di pacman, erano un fastidio, un ostacolo, per il resto li ignoravo. Lì, in quelle strade, negli occhi le immagini di un disastro, ognuno di noi era Carlo Giuliani, ognuno di loro un fottuto nazzista gonfio d’odio. Li vedevo godere mentre pestavano, lo leggevo nelle loro ghigne, quello non era dovere: era piacere. Il gioco era finito. Adesso si trattava di sopravvivenza e tutto era concesso. Ci siamo fatti strada fino alla fine del giorno. I piedi mi facevano male, respiravo a fatica e gli occhi umidi appannavano un paio di occhiali inutili. Vedevo passare persone dello spezzone delle tute bianche, con addosso i resti delle protezioni di gomma, sembravano dei pupazzi tristi, dei bambini con il ginocchio sbucciato che tornavano a casa sconsolati. Mi ha fatto male vedere quelle scene. Mi ha fatto sentire uno stronzo senza futuro alcuno. La sera all’accampamento era un turbine di paranoia, gli elicotteri e le ambulanze facevano il tappeto sonoro dell’assedio a cui eravamo sottoposti. Le voci più assurde volavano da tenda a tenda, da campeggio a campeggio, gonfiandosi, dilatandosi, diventando immense, come nuvole nere elevate a potenza. Tutti sentivano, nessuno dormiva, al massimo sveniva a causa della stanchezza.

Sabato sapevamo cosa ci aspettava. Non c’era euforia, non c’era rabbia nell’aria, solo profonda tristezza e una paura fottuta. Uno di noi era morto in una maniera troppo cattiva per essere vera, troppo stupida, per essere intollerabile. Avevano vinto, si vedeva dalle facce del corteo che muto scendeva a raccolta nelle strade. La gente con le mani bianche in tasca, visto che in aria non servivano a niente, camminavano con uno sguardo allucinato come una mandria di buoi verso il macello. Poco dopo la partenza del corteo è ricominciato il panico. I lacrimogeni arrivavano da tutte le parti senza nessun motivo, senza nessun allarme. Ci ritrovammo di nuovo nella giostra e non ci potevamo credere che tutto ricominciasse da capo. Ricordo il lungo mare, la brezza che soffiava verso la terra, portandosi via il fumo, il corteo stretto fra due cordoni infiniti di uomini robocop dalla cui spalle partivano salve di lacrimogeni. Gli elicotteri, ci bombardavano dall’alto. Non potevamo scappare, la gente era in panico, io pure. Ricordo di aver temuto il peggio perché non respiravo. Ho pensato: ora muoio qui, vicino al mare, in un giorno d’estate. Le persone calpestavano altre persone, la gente piangeva ai cigli della strada, abbiamo trovato un varco su una rampa che saliva lungo un muraglione. Ci siamo nascosti, come topi, poi la fuga a caso verso il nulla, sperando di non trovare gli sbirri che nel frattempo si erano messi a rastrellare la gente isolata. Nessuno aveva voglia di un giro di giostra dentro la questura perché ci immaginavamo cosa ci aspettava. Siamo riusciti a ricompattarci vicino la stazione e rannicchiati come profughi aspettavamo di lasciare quell’inferno. Le volanti e le ambulanze passavano in continuazione. Era quasi notte. Avevo paura. Una paura fottuta. Mentre salivamo sui treni ci arrivavano le notizie dell’incursione alla Diaz. Li nel media-center avevamo dei compagni. Abbiamo immaginato il peggio, ma la realtà ha superato la nostra immaginazione. Ci sono voluti anni per riprendersi, ma quei due giorni ci hanno cambiato tutti. A noi ragazzetti del CeccoRivolta ci ha unito per sempre. Da allora so cosa vuol dire la parola compagno e la uso con parsimonia. Da allora so cosa sia il coraggio, la forza, lo stato e gli sbirri. Genova è una cicatrice nella mia mente e ogni volta che ci penso sanguina. Ma ho imparato ad odiare, quando serve, ho compreso, se non quello che sono, quello che non sarò mai.

 

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2 risposte a #ioricordo Genova 2001

  1. semascus scrive:

    grazie

  2. Pingback: Csa nEXt Emerson » Dieci anni di Genova

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