L’anno scorso mi sentivo arido ed ho deciso di rimettermi a studiare. Quindi mi sono iscritto ad una scuola, frequentando un corso biennale in grafica per l’editoria. Anche se è il mio lavoro da diversi anni, è anche e soprattutto una delle mie passioni, e le passioni vanno coltivate, altrimenti si spengono e di te non rimane niente. Inoltre, io ho in questo campo una formazione da coscienzioso autodidatta e l’idea di un approccio un po’ più complessivo mi stuzzicava molto. Dopo un anno di lezioni, ci sono state le immancabili verifiche e una di queste era del corso di progettazione editoriale; dovevamo progettare un elaborato-stampa, con formato e pagine definite, su una parte della nostra città. Il nome dell’esercitazione era “Genius Loci”, e l’obbiettivo era appunto quello di cogliere un aspetto caratterizzante del territorio prescelto. Dire che la cosa mi cascava a fagiolo è dir poco, visto che avevo già fatto progetti simili, anche se meno design-oriented, con cartografia resistente, e da quasi un anno portavo avanti una battaglia contro il Piano strutturale nell’area di Castello a Firenze, insieme al Next Emerson ed altri comitati cittadini. La cosa era interessante per molti versi, soprattutto perché si configurava come un’opera di artigianato editoriale, in cui potevo curare tutti gli aspetti della progettazione, dall’ideazione alla redazione di testi e immagini, dalla grafica all’impaginazione, dalla stampa al confezionamento. Quindi mi sono messo di buzzo buono e ho realizzato il mio progetto sull’area di Castello, intitolandolo “Genius Mutandi”. Volevo evidenziare la complessità che si articola attorno alla trasformazione di un’area, prendendo via delle Panche come una variabile dell’esplorazione, lungo la quale diramare delle micro-narrazioni su dei luoghi simbolici di questa dinamica urbana. Il risultato mi sembra dignitoso e visto che nello specifico del progetto ho dovuto tagliare molti testi e materiali (con sommo giramento di coglioni), lo ripropongo qui in forma estesa. Allego anche il pdf dell’impaginato per farvi vedere come l’ho messo sulla pagina, sperando che sia di qualche utilità o interesse, per qualsiasi forma di vita su questa terra.
Immagina una strada. Una strada anonima a prima vista, come quelle che si trovano nelle periferie delle città. Lo sguardo registra dati noti: gente annoiata che aspetta un verde appesa ai sedili delle loro auto, qualche cane intento a tirarsi dietro un padrone, i movimenti ritmici delle porte dei bar e dei negozi sparsi ai margini della strada. Il cielo è grigio fumo e a stento lascia passare la luce. In più è inverno, con l’umido che ti penetra i vestiti, scavando strade segrete fino al midollo delle ossa. Mentre affretti il passo, per accorciare la distanza che ti separa dalla meta, la tua attenzione si riduce ulteriormente e il territorio che attraversi, diventa quasi un vuoto, un varco temporale, un non-luogo che ti separa dal posto in cui sei diretto.
Ipotizziamo invece che sia una bella giornata di primavera, un sabato pomeriggio. La testa svuotata dagli impegni, ti godi una passeggiata tranquillo, senza posti da raggiungere o tempi da rispettare; quella stessa via, illuminata dal sole e non troppo trafficata, ti comincia a coinvolgere, ad aprirsi nella sua prospettiva, a sottolineare particolari ignoti. In breve ti accorgi che quella strada potrebbe anche essere altro. Cominci a notare delle incongruenze e delle continuità, nelle architetture, come nelle persone che le abitano. La strada ti suggerisce delle storie, incrostate nei muri che ti corrono accanto, nelle facce delle persone che ti circondano.
Se poi quella strada, col tempo, cominci a conoscerla bene, magari perché ci passi tutti i giorni da più di dieci anni, acquista ancora più profondità, perché registri anche il cambiamento, la trasformazione. Da qui potresti tracciare delle linee ipotetiche, immaginandoti cosa potrebbe sembrare quella stessa strada fra quindici anni, quando magari tu sarai troppo lontano per osservarla, oppure ricostruendo quello che era il suo aspetto dieci anni addietro. La strada di cui parlo in realtà è formata dal congiungersi di due vie in continuità fra di loro, via delle Panche e via Reginaldo Giuliani, nel tratto che da via Caccini porta fino alle porte di Sesto Fiorentino, disegnando ai suoi lati il quartiere di Castello e del Sodo, nella periferia nord della città di Firenze. Un tempo area industriale e artigianale della Firenze degli anni cinquanta, è diventata negli ultimi anni teatro di grandi trasformazioni causate dal riassetto del comparto economico e produttivo della città; le grandi industrie, alcune ancora presenti (vedi la Seves), si sono spostate o si stanno spostando in aree industriali più consone, nell’interland di Sesto o Calenzano, lasciando alle loro spalle immensi spazi vuoti che diventano subito bocconi appetibili per una fauna eterogenea di soggetti. Da una parte ci sono gli investitori, che vorrebbero mettere a profitto le aree per trasformarle in unità abitative, dall’altra c’è la popolazione della zona, che in varie forme e modalità sta cercando una strada per riappropriarsi di questi spazi, nel tentativo di realizzare servizi pubblici o spazi di socialità. All’interno di questo tira e molla, si muovono le istituzioni, che con un colpo al cerchio ed uno alla botte, stanno portando avanti la trasformazione dell’area, a colpi di modifiche sul piano strutturale ed assemblee pubbliche con i cittadini. Nelle pagine che seguiranno ho individuato dei punti simbolo di questa dinamica evolutiva dagli esiti ancora incerti, nel tentativo di fare emergere la complessità nascosta agli occhi di un ipotetico ignaro passante. La nostra strada si trasformerà in confine fra mondi, sarà il fiume lungo cui navigheremo le storie racchiuse nei suoi argini, sarà un invito all’esplorazione di dinamiche segrete ma vive, presenti dove si lascia spazi vuoti o spazi in attesa di essere riempiti. Sarà un libro di racconti inediti, attraverso cui osservare la realtà che abitiamo tutti i giorni, dandogli nuova dignità e spessore.
Le prime volte che venivo qui era tutto diverso.
Il bianco non dominava, nemmeno questo strano ordine geometrico; sembra una strana astronave aliena atterrata in un posto a caso, magari per un improvvisa avaria. Se fossi stato un alieno di certo non avrei parcheggiato qui il mio mezzo, avrei scelto un posto più consono, magari in un nuovo quartiere residenziale per classi dirigenti, ma di sicuro non qui, accanto alle vecchie case popolari dette “ dei Greci” dagli abitanti della zona. Una serie di palazzoni a cinque piani, figli dell’urbanistica anni 50, quando ancora castello era un quartiere industriale e artigianale; a guardarli non sono belli, tutti erosi dal tempo, con quei muri di mattoni rossicci e le persiane color pastello, tutti affastellati uno accanto all’altro, a definire delle strane corti, forse pensate per il gioco dei bambini. Poi i terrazzi e terrazzini, gli androni dei palazzi, i cortili e le corti, così straboccanti di piante corredate dai loro vasi di plastica simil coccio, palloni e giocattoli abbandonati, pile di biciclette, panni appesi alle finestre, campanelliere stratificate da miliardi di pezzetti di carta, ognuno con su scritto un nome diverso, sovrapposto chissà quante volte a quello dell’inquilino precedente. Nel complesso è uno spazio forse un po’ decadente ma straboccante di vita, anche e soprattutto specchio di un quotidiano, fatto di segni lasciati dalle persone che quello spazio lo abitano. I nuovi edifici gli sorgono accanto, se cammini fra i loro curati cortili, le intravedi filtrate dal bianco delle nuove costruzioni, come ricordi del passato incastrati in una moderna cornice. Sono passati solo pochi anni dalla fine dei lavori. Il progetto architettonico è lo stesso della nuova casa dello studente di via Doni, quello strano edificio bianco che ha la facciata interamente ricoperta da sbarre di metallo. Le sbarre ci sono anche qui, bianche come le case, a delimitare i corridoi dei condomini, i balconi e i camminamenti esterni. Producono un piacevole effetto ottico, illuminando e al contempo nascondendo gli spazi che si celano dietro di loro. Il motivo è richiamato anche nei solai dei palazzi, nelle coperture dei terrazzi del tetto e nei passamani dei giardini che cingono la struttura. Immerso in questo paradigma di modernità cerco di capire chi ci vive. Le case sono state vendute da tempo e sono tutte abitate, la vita però non ne vuole sapere di uscire sulla strada. Forse il timore di deturpare il rigore architettonico o la “pulizia dello spazio” inibisce i residenti a manifestarsi al di là delle sbarre, oppure più semplicemente sono persone diverse, più riservate e raffinate dei loro vicini delle case popolari; In origine c’era un area industriale, uno scatolificio, se non ricordo male, lasciato vuoto dopo la ristrutturazione in chiave residenziale del quartiere. Dentro questo capannone abbandonato c’è stato un centro sociale occupato, che è rimasto attivo per tutti gli anni 90, poi sgomberato, ha ripreso vita pochi chilometri più in là, alle porte di sesto fiorentino, in un’altra area industriale abbandonata. Di sicuro adesso vengo qui solo per fare una passeggiata con il cane e dal mio piccolo punto di vista la città ha perso qualcosa. Forse gli abitanti dell’astronave la pensano diversamente e di sicuro anche chi ha costruito i palazzi.
Me ne sto ritto sul marciapiede in attesa del mio turno. Per ingannare il tempo mi metto a leggere il grande cartello affisso dal comune nei pressi del fontanello di acqua potabile. C’è scritto a chiare lettere “Centro Commerciale Naturale Il Sodo”; subito sotto una stilizzazione in pianta dello slargo di Castello, dove si segnalano tutte le piccole attività di questo spazio: c’è la farmacia, il macellaio, l’edicola, il bar, il tabacchi, il forno, le poste e altre attività utili a soddisfare i vari bisogni di un cittadino della zona. Il signore davanti a me si appresta a riempire le sue sei bottiglie, ordinate e pulite dentro il trasportino, io giocherello con la tanica che tengo fra i piedi, mentre mi avvantaggio ordinando mentalmente le commissioni che dovrò fare subito dopo l’approvvigionamento idrico. I primi anni che stavo qui non c’era il fontanello dell’acqua potabile, e non c’era neanche il grande cartello. Probabilmente ai tempi non c’era bisogno di scrivere “Centro commerciale” per fare funzionare le attività della zona, visto che ancora non c’erano molti centri commerciali a giro, soprattutto non esisteva quello di Sesto Fiorentino, a pochi km da Castello. Mentre riempio la mia tanica mi metto a chiacchierare con una signora in fila subito dietro di me; mi racconta che il Centro Commerciale Naturale era stata un idea dei commercianti, ma che non funzionava molto perché, nonostante si potesse trovare di tutto, mancava una piazza. In effetti lo slargo di castello non è una piazza. La stretta stradina di via delle panche si immette in via Reginaldo Giuliani, creando una specie di ansa che da l’impressione di una piazza ma che non ti permette di passeggiarci in mezzo, magari gustandoti un gelato o chiacchierando con un amico il sabato mattina. Carico la tanica piena nel bagagliaio e mi dirigo verso la farmacia. Il farmacista è il sindaco ufficioso di questa piccola enclave commerciale, conosce tutti, o quasi, ed è uno dei motori principali della trasformazione della zona. Mentre compro una confezione di antidolorifici per la mia compagna indisposta, gli butto lì ‘sta questione della piazza. Lui si fa serio in volto, come se avesse switchato in modalità “grave problema” e comincia a bofonchiare che non c’è verso di avere una piazza. “Tutti c’hanno la piazza, perfino quegli sfigati di Quinto, che trallaltro gli ha pagato la Coop, un vedo perché a noi un ce la devono fare” mi spiega che in zona ci sono un sacco di posti vuoti, abbandonati dalle industrie, che il comune potrebbe usare per farci una piazza, tirare su dei servizi pubblici per i cittadini “che noi si paga le tasse come tutti gli altri, e sta situazione ci sta strangolando”. Mentre torno alla macchina mi fermo a comprare il pane e un po’ di carne dal macellaio. É una bottega minuscola e antica, come sono antichi i due titolari; ogni volta che ci entro mi ricorda la macelleria dove andavo con mia nonna quando ero bambino, con le mattonelle color salmone che fanno tono su tono con il rosso delle carni. I prodotti sono abbastanza cari, ma c’è un motivo. La carne che c’è qui viene da una fattoria su monte morello, che svetta lontano dietro le colline. Viene da animali cresciuti e macellati con amore e questo per me vale più del loro prezzo: come dice il macellaio ogni volta che qualcuno si lamenta per il costo. “Questa gli è carne vera! non come il polistirolo pieno di antibiotici che ti rifilano alla coppe.” Tanto che sono lì, chiedo anche a lui che ne pensa del centro commerciale naturale; lui ammicca, mettendo in evidenza le migliaia di rughe che gli riempiono la faccia: “una volta la si chiamava strada, ma se pensano che cambiandogli il nome si venda di più, so’ fatti loro.” Torno alla macchina con una bella bistecchina e penso a Castello e alla piazza che non c’è.
Cammino rilassato lungo via Reginaldo Giuliani, ho una appuntamento per le nove con A., che vive poco dopo il circolo di Castello, in una delle tante micro-case ricavate nelle piccole palazzine sulla strada. A tracolla porto la borsa con la macchina fotografica e in tasca un i-phone per girare qualche piccolo video. Il motivo che mi ha tirato giù da letto così presto, non è solo la bella giornata di sole dopo due settimane di pioggia ininterrotta, ma anche la possibilità di fare un’ esplorazione urbana rimandata da troppo tempo. A. mi aspetta a casa con il caffè fumante dentro la moka; facciamo rapidi colazione e ci prepariamo all’esplorazione. Il nostro obbiettivo è a poche centinaia di metri da noi, l’ex area industriale Cerdec, il fantasma di Castello, lo spazio che c’è ma non si vede. Entriamo dentro l’asilo Richter, un edificio dismesso diversi anni fa, perché troppo vicino a due industrie che ai tempi costituivano un problema per la salute dei bambini. Le aziende in questione sono appunto il colorificio Cerdec, nascosto dietro l’asilo, e la Seves, tuttora attiva anche se in via di dismissione. Dopo anni di abbandono l’asilo è stato occupato dal movimento di lotta per la casa di Firenze, diventando con il tempo una delle sue occupazioni storiche. Facciamo un giro all’interno del cortile per capire da dove entrare, alla fine, la via d’accesso migliore non risulta agilissima: scavalchiamo una rete di circa un metro e mezzo e poi ci issiamo sul muretto che fa da divisione fra i due spazi. A causa delle lunghe piogge il terreno è molto fangoso e quando arriviamo di la assomigliamo più a due vietcong mimetizzati con tanto di fangazza sulla faccia. Ci puliamo alla meglio sbattendo le mani sui pantaloni, quando ritiro su la testa, davanti a me si apre uno spazio a dir poco immenso, che in 10 anni che vivo qui non sapevo neanche che esistesse. Circa 35.000 mq di area industriale, con dentro più di 7 capannoni completamente abbandonati, totalmente invisibili dalla strada. Ci infiliamo nella prima serie di edifici, dove probabilmente c’era una parte degli uffici di amministrazione dell’azienda. Passiamo dentro una serie di stanze, tute vuote, si sono ripuliti anche gli impianti elettrici, in un angolo giace un vecchio radiatore di ceramica in mille pezzi. Nella sala più grande si apre un gigante finestrone che da direttamente sul capannone, che ci appare dall’alto come un gigantesco angar dopo un alluvione. Sul pavimento ci sono svariati metri di fango che alzano il pavimento originale di circa un metro. Il mio compare mi dice che forse è il frutto della recente bonifica effettuata in alcuni capannoni, dove si trovavano delle immense vasche utilizzate per mescolare i colori, e che risultavano altamente inquinanti. Scendiamo a dare un occhiata da vicino, nel capannone vuoto rimbombano i rumori dei nostri passi e il sibilare elettrico della macchina fotografica. Usciamo all’aperto, lanciandoci in una circumnavigazione dell’area; attraversiamo un grande parcheggio, forse utilizzato per le operazioni di carico e scarico, alcuni bandoni sono sollevati a mezz’asta, nel muro sdrucito del capannone incorniciano dei grandi spazi vuoti.
Continuiamo a camminare per circa 500 metri, A destra e a sinistra i muri di altri due capannoni disegnano un cono d’ombra sull’asfalto. Passiamo sotto una specie di copertura a volta, fatta con onduline di fibra di vetro verdi, in parte la copertura è andata distrutta dal tempo lasciando passare pezzi di cielo sparsi; nell’insieme ha qualcosa di liberty che non saprei definire meglio. Giriamo intorno ad un capannone e si apre una strada in discesa, che finisce in un ampio spazio, chiuso da altri tre capannoni. Mi viene da pensare alla piazza di Castello, la piazza che non c’è. Una parte di questa immensa area potrebbe diventare una piazza, ma le piazze non rendono come i palazzi. Ci sono anche altri uffici, dove troviamo un mobile ancora da montare e imballato a dovere, come se lo fossero dimenticati li. L’imballo non ha tracce di polvere e non sembra essere li da troppo tempo. Faccio foto a dei particolari, oggetti appoggiati un attimo su un davanzale e rimasti li per venti anni, completamente immobili, ad aspettare che qualcuno li riportasse in vita, dandogli dignità o semplicemente una funzione. Ci fumiamo una sigaretta al sole, con il culo appoggiato ad un muretto, guardandoci intorno in religioso silenzio. Poi ritorniamo nella civiltà, 20 metri sotto di noi, lasciandoci alle spalle uno spazio vuoto, uno spazio che rifiuta il presente, costringendoti a pensare a cosa era e a cosa potrebbe essere.
Il mercoledì e il venerdì vado ad allenarmi alla palestra Sanpietrino.
É un posto particolare perché quando ci arrivi non c’è reception o comessa-figa a cui fare vedere il tesserino, non ci sono personal trainer con l’addominale scolpito e tanto meno il commerciale di una finanziaria disposto a concederti un comodo prestito per tenerti in forma. In realtà la SanPietrino è una palestra gratuita, autogestita dalle persone che la usano; si trova dentro un Centro Sociale, anche esso completamente autogestito, che vive all’interno di uno spazio lasciato vuoto, una vecchia fabbrica abbandonata. Lo spazio è stato occupato cinque anni fa, dopo essere stato sgomberato dalla sua vecchia sede, in Via Niccolò da Tolentino. Anche li occupava una vecchia area dismessa, poi trasformata in palazzi residenziali. Anche la nuova sede vive un esistenza in bilico, visto che anche qui ci vogliono costruire nuove case, per trasformare castello in un’area ad alta densità residenziale. In attesa che amministrazione e proprietà trovino il modo di aggirare i vincoli urbanistici a cui è soggetta l’area, il Next Emerson, continua la sua attività, ospitando una serie di corsi, mostre, concerti e attività varie, tutte rigorosamente gratuite e aperte ai cittadini: c’è il corso di tango, quello di thai-chi e quello di boxe, la serigrafia, un laboratorio di auto-costruzione, lo skate-park, la biblioteca e la distribuzione, il mercato biologico e il teatro. In questa matriosca culturale, ognuno può portare dentro le proprie istanze a patto che siano rispettose delle persone e delle cose e che non abbiano scopo di lucro. Negli ultimi anni è nato anche un percorso di partecipazione fra il Next Emerson e alcune associazioni di quartiere, per cercare di determinare almeno in parte la trasformazione urbana di questa zona, nel tentativo di strappare un po’ di metri quadri alla cementificazione, in favore della realizzazione di spazi pubblici e servizi al quartiere. Lo spazio si è dotato di un’assemblea settimanale, come momento decisionale e di confronto fra tutte le persone che animano le attività del centro. Anche se i processi sono un po’ più macchinosi che all’interno di un organo direttivo, si riesce a dare spazio a tutte le istanze buttate sul tavolo, cercando di condividere il più possibile le specifiche competenze e attitudini di ogni partecipante.
Tutto quello che si trova all’interno dello spazio è stato realizzato con materiale di recupero, persino i muri e i tramezzi utilizzati per suddividere gli immensi capannoni, sono stati recuperati da magazzini dove erano lasciati a marcire o dai cassonetti delle fiere come Pitti Immagine. Questo non solo perché non girano finanziamenti pubblici o privati di alcun tipo, ma perché si ritiene una ricchezza riuscire ad organizzare pratiche ed attività fuori dal circuito monetario, per dare valore e spessore alle relazioni, alle passioni e alle competenze; un modello altro da quello che troviamo ovunque e un esperimento concreto per evidenziarne la fattibilità.
Il fine settimana sono un cittadino del mondo di sopra.
Lo si capisce dall’irrequieto silenzio della strada, ritmato solo dall’incedere delle mie scarpe da ginnastica sull’asfalto, stranamente sgombro di macchine. Sabato mattina, pochi km sotto, la città brulica di vita, ma la strada che sto percorrendo sembra un altro pianeta. Nel tranquillo alternarsi di discese e salite, capita di incontrare altri runners che ti salutano solidali nello sforzo, vecchi abitanti che fanno due passi, qualche coppia con il cane. Via dell’Osservatorio non è stata pensata né per le macchine né per le botteghe; larga una corsia o poco più, ricorda una vecchia mulattiera di montagna. Ai suoi margini, che si srotolano per circa 3 km, due lunghi muretti a secco, alti circa due metri e mezzo, accompagnano l’occhio dell’osservatore, intervallati ogni tanto dai cancelli delle ville che nascondono, o aprendosi in terreni coltivati ad ulivo e vite. Sembra una Firenze medioevale, fatta di vicoletti montani e grandi spazi cinti da mura, intervallati ogni tanto da ville cinquecentesche con i loro curati giardini, parchi e piccole abitazioni ad uno o massimo due piani. Mentre corro ascolto il silenzio, ogni tanto rotto da qualche uccello infastidito o dal rombo lontano di un’automobile.
Durante la settimana sono un cittadino del mondo di sotto. Oggi ho preso la macchina, abbandonando il motorino alle cure di un meccanico. Sono le sei del pomeriggio, la strada si presenta come un lungo imbuto scuro, tracciato in basso dai mille fanalini di coda delle vetture incolonnate e in alto dalla schiera di cartelloni pubblicitari 6×3 e dalle insegne dei negozi. Le vetture procedono a scatto, creando come un singulto frenetico nello scorrimento dei mezzi. Mi fumo una sigaretta nella speranza di arrivare a casa per la cena, i miei occhi registrano movimenti confusi sui marciapiedi, mentre cerco di seguire una trasmissione radiofonica locale. Una donna suv-dotata nella corsia accanto alla mia, quasi mi urta, svoltando distrattamente a sinistra, per infilarsi dentro uno dei mille distributori sulla strada; la guardo mentre mi passa davanti, la testa piegata sulla spalla a sorreggere un telefonino clavicolare e una sigaretta accesa nella mano che muove lo sterzo. Mi incazzo lanciando insulti a caso che risuonano dentro il mio abitacolo, mettendo in evidenza la mia incapacità di comunicare con lei, che è e rimarrà una perfetta estranea. Il semaforo arresta la mia corsa davanti all’ampio parcheggio di un discount, dove due uomini, probabilmente senegalesi, si osservano in silenzio davanti al parcheggio carrelli, in attesa di una anziana signora a cui caricare la spesa in macchina. Il rumore dei clacson direziona nuovamente la mia attenzione al semaforo, chiaramente verde. Riparto rapidamente inseguito dalle proteste acustiche dei miei “compagni di viaggio” anche loro astiosi per una giornata di lavoro e ansiosi di tornare a casa. Anche loro persone a me estranee, dei nemici, la causa e non l’effetto del mio malessere.