Greetings form Bruxelles

Nell’ultimo mese, la quieta quotidianità del Cecco Rivolta è stata scossa da due importanti novità, determinate entrambe dai due anni di sbattimenti per avviare un percorso di partecipazione all’interno del quartiere di Castello, nel tentativo di innescare un meccanismo virtuoso che ci desse un ruolo attivo ed una centralità agli occhi degli abitanti e dell’amministrazione pubblica. La prima simpaticissima news, ci comunicava che L’Università degli Studi (attuale proprietaria dell’area), a seguito della prescrizione del processo penale che ci vedeva coinvolti in qualità di occupanti abusivi, aveva fatto partire un secondo processo, questa volta civile, per essere risarcita dei “danni” prodotti alle sue proprietà. I danni in questione sono la realizzazione degli orti sociali, la creazione di un’area cani gratuita e i lavori di ristrutturazione che abbiamo fatto alla casa. Mentre mettevamo su una strategia difensiva con il nostro pool di avvocati, siamo stati invitati, per gli stessi motivi, a partecipare ad un meeting internazionale a Bruxelles sulle economie non monetarie, lasciando spazio a facili ironie sulle evidenti differenze interpretative che generava il nostro piccolo progetto.
Il meeting era organizzato da un’associazione che si chiama City Mine(d) con cui ha collaborato anche una mia cara amica ricercatrice, in questo momento intenta ad accudire il suo primo genito. Grazie a lei, il Cecco Rivolta, era uno dei cento progetti che da tutta europa sono andati ad animare questa tre giorni a Bruxelles, con l’obbiettivo di creare una rete internazionale che fosse capace di esportare pratiche di vita alternative al sistema merce ormai in voga a livello planetario.

Urban Platform (questo il nome della tre giorni) si avvaleva di un cospicuo finanziamento della comunità europea, che ha permesso di rimborsare le spese di viaggio, alloggio e sostentamento a due rappresentanti di ogni realtà invitata. Nel quartier generale del Cecco, è stata fatta un estrazione stile yattaman per decidere i degni rappresentanti. Chiaramente sono uscito io, affiancato inizialmente da Vito, che ha laidamente abbandonato il campo due giorni prima di partire. Al suo posto è venuta Giulia, la cui presenza è stata di fondamentale importanza e di assoluta professionalità. Nel mese prima di partire ho messo su un team mostruoso di traduttori, che ci hanno permesso di rendere comunicabile la nostra esperienza ad una platea internazionale. Non posso qui non inginocchiarmi di fronte allo sbattimento a cui li ho ingiustamente sottoposti ringraziando tutti per l’impegno che ci hanno messo nel farlo. Armati di opuscoli, video e un manuale digitale su come ripassare tutta la grammatica inglese in quindici giorni, siamo partititi alla volta della capitale europea; qui sotto cercherò di raccontarvi cosa abbiamo combinato. Se non avete voglia di leggere tutto il testo che segue, potete sempre ripiegare su una replica di “amici” della De Filippi oppure in un romanzone di Faletti e vi assicuro che nessuno si offenderà.

1°giorno

Siamo Arrivati all’aeroporto di Charleroi con un’ora di ritardo, essendo la Ryanair la trenitalia del cielo solo con prezzi decisamente più bassi. Una volta lì abbiamo scoperto che l’areoporto è praticamente in Olanda, sciroppandoci così un’altra oretta buona di pulman per arrivare in città. Con i nostri bagagli siamo andati direttamente al meting point per la prima accoglienza. La sede principale della tre giorni era in Chassè de Wavres. Praticamente a ridosso del nuovissimo quartiere europeo, dove sorge il parlamento e tutti gli annessi e connessi amministrativi. Ad accoglierci una simpatica ragazza dietro un bancone e un essiccattore da cantiere puntato al torace che mi ha generato uno scompenso termico mostruoso. Mentre lei mi spiegava come muovermi, il mio sistema nervoso è andato in avaria a causa dell’escursione termica equiparabile a quella marziana e mi sono limitato a dire yes muovendo il capo in su e giù e cercando di non perdere i sensi. Per fortuna, ci hanno fornito una documentazione molto precisa e un pasto caldo, che mi hanno permesso di recupare il mio deficit cognitivo. La sede del meeting non era affatto rileccata, con tutti i segni tipici di uno spazio autogestito, il che mi ha messo subito a mio agio. Il pasto, rigorosamente vegano, ha generato in me qualche preoccupazione, visto che già di loro i nordici non ci mettono molto le mani a livello gastronomico e io sono un tipo esigente. Rifocillati e riscaldati, abbiamo approfittato del momento di stanca per fare un salto al B&B a posare le valige e farci una doccina ricostituente. Il viaggio per trovarlo è stato tutt’altro che rifocillante viste le valige e il senso dell’orientamento di due alieni in un pianeta nemico. Alla fine riusciamo a trovarlo a poche centinaia di metri da piazza Flagey, dove saremmo dovuti andare la sera stessa per l’evento di apertura del meeting.

Il B&B e i signori che ci hanno accolto meritano una breve divagazione, anche se ai più sembrerà una roba superflua ai fini della trattazione; visto però che il blog è il mio, ci scrivo che mi pare, considerando anche il fatto che non sono abituato ad essere trattato come il Principe di Scozia e la cosa mi ha impressionato non poco.
La casa era una tipica abitazione nordeuropea sviluppata su tre piani, tutta di legno all’interno e finemente arredata. La signora ci ha accolto con un sorriso a 45mila denti con tanto di  maglioncino rosso da nonna e piedoni scalzi sul parquè impeccabile. La nostra camera era all’ultimo piano, con tanto di terrazzino affacciato sui tetti a spiovente del vecchio quartiere flemish e tutte le comodità possibili ed immaginabili. Addirittura la vestaglia di ciniglia, oggetto a me finora ignoto, che ho immediatamente scambiato per l’accappatoio, infradiciandola all’istante e rendendola inservibile per tutti i tre giorni successivi. Nonostante questi piccoli inconvenienti, il posto dove alloggiavamo ha saputo coccolarci oltre ogni dire, rendendo la nostra maratona molto più piacevole e rilassante.
Verso le sei del pomeriggio abbiamo rimesso il naso fuori per prendere confidenza con il territorio, cercare il palazzo dove si teneva la conferenza e mettere qualcosa sotto i denti. A Bruxelles non si può certo dire che sprecano l’elettricità, tutte le strade sono illuminate il minimo indispensabile e anche le piazze e in generale gli spazi pubblici non sono illuminati a giorno come qui. Il risultato è apprezzabile, perché trasforma la visione della città di notte in qualcosa di molto meno artefatto e in un certo senso più a misura d’uomo. Piazza flagey di notte si attraversa in condizione di semioscurità, al che ci ha generato dei problemi nella consultazione della cartina, ma alla fine abbiamo trovato la hall. Visto che era presto ci siamo infilati in un localaccio fumoso li vicino, per berci un ottima birra e definire la strategia comunicativa un pò più nel dettaglio. I brussellesi fumano ancora nei locali pubblici, mentre ti guardano come un pedofilo se accendi una cicca dentro una casa.  Misteri della fede.
La birra belga a stomaco vuoto è un esperienza potente e siamo infilati al flagey praticamente alticci. Lo spazio è immenso e molto curato. Mi spiegava una delle organizzatrici che è un po’ lo spazio polivalente della città, ci vengono fatti dagli spettacoli di lirica ai raduni degli scout. Io ancora provo ad immaginarmi un raduno di scout in calzoncini in uno spazio come questo. I materiali della conferenza erano chiusi in delle borse ricavate da ombrelli rotti dal vento e camere d’aria delle bici. ci saranno state più di 200 borse, molto diverse nello stile e nel taglio, anche se un p0′ tirate via nella fattura; il lato “do it your self” della tre giorni era molto ricco di progetti interessanti e ben pensati e uno dei tavoli di lavoro del meeting era incentrato proprio su queste pratiche. In generale un messaggio forte che veniva da un po’ tutta la comunity era il forte richiamo all’autogestione dei propri bisogni ed alla creazione di reti sociali volte a risolvere problemi comuni della vita quotidiana. Il dibattito era molto istituzionale, pensato per un pubblico largo e orientato alla vetrina politica, se così si può dire. Si ragionava sul rapporto tra macro e micro economie, fra dimensione istituzionale e dimensione sociale. Gli invitati erano tre: Un parlamentare laburista inglese, che aveva attivato nella città di londra delle reti di cittadinanza attiva, un imprenditrice ganese impegnata nella commercializzazione in occidente di prodotti realizzati da donne del Gana malate di aids o con il marito in galera, e l’ex presidente della Greenpace belga. Il dibattito è stato a tratti interessante e a tratti di una noia mortale. Sicuramente è stato per me il momento più basso di tutto il meeting, perché in controtendenza con tutte le altre attività organizzate, molto più basate sulla partecipazione attiva e pensate come momento altamente relazionale. Nota a margine: quando parlava il labour non c’era verso di capire cosa diceva. Il mio cervello dopo vari tentativi a vuoto si agganciava alla musicalità delle parole, cadendo in una simulata morte celebrale. Dopo il dibattito uno sciame di camerieri serviva degli stuzzichini micidiali annaffiati con birra ad alta gradazione. Noi stavamo svenendo dalla fame e dall’inedia e ci siamo abbuffati di queste micro-molotov dal contenuto ambiguo. Dieci minuti dopo il mio fegato voleva andare a letto da solo, ma visto che eravamo stanchi lo abbiamo accompagnato.

2° giorno

La colazione, come potete immaginare, era la rappresentazione del paradiso. Ero arrivato al punto che per prendere sonno pensavo alla colazione del giorno dopo, cercando di dimenticare la sbobba marrone che mangiavo tutti i giorni. Mentre mangiavamo come antichi romani in era decadente, chiacchieravamo in allegria con i padroni di casa, fino a quasi diventare i loro amati figlioli. Alla fine il marito mi ha chiesto di portare i suoi saluti a mia nonna augurandole una pronta guarigione. Sto ancora cercando un modo per dire a mia nonna (in questo momento con qualche difficoltà cognitiva) che la saluta un signore belga che lei non ha mai visto prima. non credo di potercela fare.
Sabato giorno di Workshop. ogni area tematica aveva un indirizzo diverso come sede del workshop. Noi eravamo nel gruppo “micro-economie” e dovevamo andare in questa casa dove abitava un certo Ian, nostro referente. Visto che era presto, ci siamo persi in un esplorazione urbana mattutina, riuscendo ad arrivare con le ascelle pezzate al luogo dell’incontro.  Ad accoglierci, un campanello che non funzionava, una ragazza ignava e un cane da guerra miniaturizzato di nome scita. Alla fine scende Ian e ci offre un teino. nel frattempo cominciano ad arrivare gli altri e passiamo tutta la mattinata a presentare noi e quello che portavamo con noi. Vi illustro brevemente gli altri partecipanti del nostro gruppo: Ian, il nostro tutor, era li in veste di abitante di una casa “alternativa” di Bruxelles, ovvero la casa dove eravamo. Questa casa, come ho potuto constatare durante la visita guidata, detto molto sinteticamente, non era molto interessante.
Fondamentalmente era una casa in affitto, molto attenta al recupero dei materiali e alla riduzione degli sprechi, ma in sostanza la messa in pratica dei principi lasciava molto a desiderare. Ad esempio ha tentato di venderci come pratica di compostaggio un cumulo di rifiuti buttati in un angolo di un cortile di due metri per due, con alcuni gatti che tentavo di impiccarsi nella rete per non dover più sopportare il puzzo di decomposizione. oppure il bagno ecologico, fatto con la segatura, che può essere una valida idea ma va progettato con attenzione; metterlo accanto alla cucina non è stata una buona idea: mentre scrutavo i vasetti della dispensa mi veniva in mente la scena di Abatantuono quando entra in cucina e fa<< mmm… che profuminoooo…>>. C’era in oltre, una camera oscura, un banco di libero scambio di vestiti, la cucina di recupero e sette piani di scale che non ci hanno fatto salire. A parte la casa, lui era un bel personaggio, molto simpatico e rilassato ci ha regalato spunti interessanti più di una volta.  Aurelia, anche lei di Bruxelles, si occupava di dinamiche legate al problema abitativo per le classi sociali deboli; persona molto simpatica ed interessante ci ha praticamente fatto la visita guidata alternativa della città, durante il pomeriggio. Lei è rimasta molto colpita dalla nostra realtà, sia del cecco che dell’Emerson ed ha promesso di venirci a trovare. Forse la persona con cui abbiamo parlato di più e in modo molto proficuo. Poi c’era Giulia, di origine italiana che viveva in uno edificio occupato con 70 inquilini, insieme al suo compagno e a suo figlio, ribattezzato istantaneamente in “vandikkino“, vista la spettacolare somiglianza con i personaggi dei dipinti fiamminghi e la sua spiccata tendenza vandalica. Al tavolo, un’altra italiana, avvocatessa milanese che si occupava di immigrazione e era nel gruppo dei ballerini di contact di strada. C’era anche un fotografo attivista di Sarajevo e un personaggio francese, trapiantato in Belgio, con una bella storia personale, che abitava in un’altra casa alternativa di cui vi parlerò in seguito. Durante la giornata abbiamo incontrato anche altra gente, che non menziono perché questo post sta diventando troppo lungo.
Il primo pomeriggio lo abbiamo passato in giro per la città, facendo foto e ascoltando la sua storia dalla bocca multilinguista degli indigeni. La storia recente di Bruxelles è simile alla storia di tutte le altre città europee: territori lesi dalla speculazione edilizia e dall’arroganza del denaro; riduzione sistematica degli spazi e dei diritti sociali, per fare posto ai loft delle classi agiate e ai palazzi di rappresentanza nei quartieri ritenuti chic dalla moda del momento. Mentre Ian ci raccontava lo sgombero della più storica occupazione di Bruxelles (in cui c’è scappato anche il morto) e di cosa si apprestavano a costruirci sopra, la micro platea alle sue spalle, da sarajevo a Firenze, annuiva come se se lo fosse visssuto pari-pari nella sua città. Dopo la gita siamo andati a casa del personaggio-francese (scusate ma non ricordo il nome perché era impronunciabile se non da un alieno). Ad aspettarci c’era uno spuntino e una scatola di cartone su un tavolo. Dentro la scatola c’era un gioco. Era il nostro workshop.

Il gioco consisteva nell’individuare dei concetti chiave comuni a tutte le realtà del tavolo, mettendo su un piano puramente orizzontale e anti-rappresentativo la dimensione relazionale. Via via che il gioco avanzava, una persona a girare registrava i dati prodotti in una sorta di diagrammma, mettendo in evidenza i punti in comune e le divergenze, senza costringere a pipponi immani i partecipanti. Devo dire che è stata un’esperienza piacevole e molto interessante, tant’è che con la Giulia ci siamo ripromessi di sperimentarlo anche da noi. Unica pecca evidente era l’eccessiva lunghezza del gioco, che infatti non abbiamo finito. Altro particolare interessante era l’alternarsi misurato di momenti ludici ad altri più seri: ad esempio dopo una dura sessione concettuale ci dovevamo fare le foto o mangiare panette di cioccolata. La serata è volata e dopo la cena-sbobba al quariter generale e qualche birretta, siamo filati a lettino, sfiniti. Il B&b era l’unico angolo di connettività a mia disposizione; pensavo di andare in un posto irrorato di onde eletromagnetiche sature di google search, invece non trovavo mai una wireless amichevole, notando tra l’altro la scarsissima presenza di phone-center, internet point o cabine del telefono.

3° giorno

Il giorno di chiusura del meeting era pensato come un momento di pubblicazione collettiva. Avevano allestito una sorta di bazar, dove ogni progetto esponeva i suoi materiali: c’erano postazioni video dotate di cuffie, banchini con materiale informativo, mostre attaccate alle pareti e oggetti di svariata natura. Il nostro piccolo banchino ha letteralmente spopolato. Si sono ciucciati più di 100 bookettini del Cecco e diversi pieghevoli dell’Emerson. La Giulia si è fatta intervistare per una buona mezz’ora da uno zorro munito di telecamera e abbiamo passato la mattinata a spiegare a chi ce lo chiedeva cosa facevamo.  Abbiamo conosciuto anche due ragazzi di Foligno, Emanuele ed Elisabetta, che avevano portato il progetto di un giornale che si chiama “Grassetto”; molto simpatici sia loro che il loro progetto, peccato che hanno avuto problemi tecnici e non sono riusciti a portare a termine il workshop che avevano organizzato. Durante l’arco della giornata, erano state programmate un tot di attività, che andavano dalle proiezioni, ad azioni di street comunication. Io ho partecipato nel pomeriggio ad un workshop di cartogrrafia, organizzato da un gruppo di ricercatori. Si trattava di ridefinire il quartiere dove ci trovavamo, individuando ciò che non andava e cosa si poteva fare per migliorarlo e renderlo più vivivbile. Eravamo 16 persone divise in tre tavoli. Ogni tavolo aveva a disposizione una mappa della zona e un set di adesivi, in cui si potevano trovare icone di tutti i tipi. molti di questi adesivi permettevano di aggiungere testo o creare nuove icone se ne avevamo bisogno. Inutile dire che mi sono divertito come un bambino, succhiandomi via buona parte del pomeriggio. Al mio tavolo eravamo in sette: (anche se sembra una barzelletta anni ’80 non lo è affatto) una ragazza di Istanbul, io, Elisabetta, un francese che ci faceva da tutor, un tedesco, un inglese e un’indiana trapiantata a Bruxelles. Le icone hanno aiutato non poco a superare le diversità linguistiche e in breve eravamo tutti concordi nel far brillare il quartiere europeo. Un’altro elemento che ha trovato particolare successo è stata l’area cani, importata dall’esperienza del Cecco, come elemento di prima socializzazione. Il francese è impazzito e le ha messe ovunque. Poi ho fatto delle icone bellissime, prima su tutte il kebab, per incrementare la contaminazione multietnica. Alla fine del workshop abbiamo comparato le carte e sono emersi spunti molto interessanti. Sicuramente da riproporre (mi sono fregato tutti i fogli di stickers).
Fra una cosa ed un’altra il tempo è volato e ci siamo ritrovati in prossimità della cena. All’arrivo del pentolone di sbobba mi sono sentito morire; ho girato la testa e ho visto Emanuele, che mi guardava come un condannato a morte, proferendo queste testuali parole: <<‘na sarsiccietta?>>. Non me lo sono fatto ripetere due volte, abbiamo smontato il banco, salutato tutti, bevuto tutti i free-drinks che avevamo da parte e sbronzi come capre siamo partiti in formazione umbro-toscana alla ricerca di una salvifica sarsiccetta.

Dopo aver mangiato, siamo andati a vedere lo squat dove abitava Giulia, la tipa del workshop di sabato, facendoci diversi km a piedi con un freddo barbino. Visto che eravamo alticci e ci conoscevamo poco è stata una passeggiata piacevole e costellata di cazzate in salsa centro-italiota. Più che una casa era un condominio, nel mezzo di un viale monumentale, molto vicino al centro; dentro, al piano terra, c’era una sorta di spazio sociale, con diversa gente che mangiava in uno stato di semioscurità. Abbiamo cercato un posto per sederci e poi siamo andati a cercare il bar, per farci due birrette. La cosa non è stata facile, alla fine disperati abbiamo chiesto ad un tipo che ci ha indicato il market indiano accanto allo squat. Abbiamo comprato una bella bottiglia di vino californiano e ce la siamo scolati incastrati in un tavolo praticamente collocato in quella che una volta era la vetrina del negozio. Poco più tardi è arrivata Giulia che aveva messo a nanna Vandikkino ed ha acconsentito a farci fare un giro per lo spazio. Mentre saliviamo i 16.000 piani ci raccontava che nonostante lo spazio sia illegale, al suo interno c’erano molte associazioni e la struttura riceveva dei finanziamenti per “liberare” e riutilizzare i posti abbandonati in città, per sottrarli alla speculazione. Mentre lo diceva io pensavo a probabili infiltrazioni marziane nella società belga. Lo spazio era bello anche se un pò troppo trascurato. Ci raccontava le difficoltà che hanno a vivere in 70 sotto lo stesso tetto e come si erano organizzati per non uccidersi a vicenda. Abbiamo visto anche il lab di informatica, unico posto ordinato dello spazio, dove viveva il “responsabile”, ribattezzato da noi “colui-che-scruta-nell’ombra-gli-intrusi”, dietro una console. Congedata Giulia e salutato gli ultimi supersitit del meeting ci siamo avviati a casa a piedi, ormai consci di dominare il territorio e soddisfatti della piacevole giornata. mentre camminavamo con giulia verso casa, un pensiero fugace è volato alla vestaglia di ciniglia e alla colazione del giorno dopo.

Questa voce è stata pubblicata in other lands e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.

5 risposte a Greetings form Bruxelles

  1. Pralina scrive:

    L’articolo sul Cecco esce nel numero di marzo di “A”, c’è anche un occhiello dal tuo blog, che rimanderà qui, perché mi sembra estremamente interessante la storia di Bruxelles… ho cercato di fare del mio peggio… 🙂 un abbraccio a tutt*

  2. low scrive:

    bella gire,
    la lettura ad alta voce del tuo post è stato l’unico momento di svago in una intera settimana senza una pausa tra una poppata e un altra… ma ‘a sarsiccetta non l’avete poi trovata ?

  3. pinke scrive:

    i tuoi diari di viaggio sono sempre meravigliosi gire…

  4. Kali scrive:

    Post fantastico, come sempre 🙂 ho trovato cosa regalarti alla prossima occasione 😀

I commenti sono chiusi.